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Piccolo prontuario (non richiesto) di risposte per supplenti stufi di sentirsi dire che hanno tre mesi di ferie pagate

Foto di Feliphe Schiarolli su Unsplash

Ogni anno sempre la stessa storia. 
Che palle eh? 


Eppure è così. 

Provare a rimanere lucidi nei confronti di chi pensa che gli insegnanti abbiano tre mesi di ferie pagate, che un supplente possa scegliere dove andare ad insegnare l’anno successivo, che un supplente possa scegliere quando terminare il contratto e che lo stesso temporaneo possa intercedere presso il Pres.. Dirigente Scolastico affinché egli possa rimanere in quella determinata scuola è un lavoro piuttosto complicato.
La montagna si fa sempre più alta da scalare e sembra alzarsi sempre di più al termine dell’anno scolastico.

Già, il termine delle lezioni. La fine delle lezioni porta con sé una serie di luoghi comuni ma anche inquietudini e domande da parte di genitori e studenti riguardo la permanenza di alcuni insegnanti che sono rimasti lì per poco tempo o per un anno. Vale a dire: i supplenti sopra citati.

1) «Tre mesi di ferie»
La domanda più facile a cui rispondere è quella che viene rivolta  riguardo l’estate.
Ad ogni modo ci sono varie domande che possono essere poste e il tono di esse muta, radicalmente, l’approccio della conversazione conseguente. Ci sono quelli disinteressati che non sanno quello di cui stanno parlando: «Beh quindi adesso ve la spassate: tre mesi di ferie»; quelli che sono fermamente convinti: «Io pure vorrei fa er lavoro tuo: tre mesi de ferie pagate da o sSato senza lavorà, ma ce metterei a firma. E che è lavorà er tuo?!»; quelli che sono ignari di quel che accade al di là della punta del loro naso: «Ah sì? Cioè non puoi decidere tu dove ti mandano? In che senso sei supplente? Ah non hai una cattedra? Ma pensa…». 
Quest’ultima categoria poi di solito è quella che inizia un discorso da libro Cuore sulla scuola ai suoi tempi, richiamando a sé dalla propria memoria la «mia maestra Estelina, che cara che era!». Di solito le maestre che popolano i ricordi di costoro erano sempre «vecchissime e bruttissime» ma «dolcissime» che «non avevano marito» e, ad adiuvandum «non andavano mai in ferie», mica «come voi adesso». 
Dei perdigiorno, insomma. O, come si direbbe da queste parti: dei lazarù fanegot.

Risposta semplice a tutte e tre le affermazioni che prevedono l’illazione dei «tre mesi di ferie pagati». 
«No, non abbiamo tre mesi di ferie. I supplenti possono essere chiamati fino all’8 giugno, fino al 30 giugno oppure fino al 31 agosto. Quest’ultimo contratto, tuttavia, è molto raro poiché non solo il supplente verrebbe pagato davvero fino al 31 agosto, ma avrebbe diritto anche alla Carta del docente, senza ricorrere ai ricorsi (ma qui si aprirebbe un altro capitolo).
Chi termina l’8 giugno può essere nominato come commissario d’esame, in tal caso gli vengono proposti dei contratti settimanali fino al termine degli esami. Dopodiché è disoccupato. 
Allo stesso modo se si termina il 30 giugno. C’è anche l’eventualità che si proceda di giorno in giorno con contratti singoli fino al termine degli esami (è successo anche questo). 
Al termine di essi, circa metà luglio, sei disoccupato: cioè chiedi la Naspi».

Se poi l’interlocutore è proprio scemo e continua a dire: «EH VEDI COMUNQUE C’AVETE STI TRE MESI PAGATI SENZA FA GNENTE» puoi serenamente dirgli che non ha capito una fava e che, una volta disoccupato, sei a carico suo e che è lui che ti paga la Naspi (sempre che giunga per tempo). 

2) «Quindi ha deciso, professore: se ne va» 
A questa domanda, che è più una considerazione a cui segue un fare spallucce rassegnato, di solito segue anche l’altra considerazione: «Forse non c’è stato feeling con la classe». Il punto è che uno non è che decide di andarsene se è temporaneo: ti assegnano un posto indicando data di inizio e di fine servizio. Stop. Non si può andar oltre, né da soggetto (decidere di strutturare qualcosa di più stabile per la propria vita), né da oggetto (accogliere l’ipotetica comunicazione del Pres… Dirigente scolastico riguardo la tua ulteriore permanenza).

3) «Ma con tutti i professori che mancano mi sembra impossibile che non si possa rimanere scegliendolo»
E invece è proprio così, signò. Non che apprezzi la cosa: è così. 

4) «Ma io so di una professoressa che, alla scuola professionale che frequenta la figlia di mia nuora di terzo grado, si può scegliere se rimanere o meno»
Di solito, anche in questo caso, il dibattito è piuttosto ampio ma, sfortunatamente, 9 volte su 10, il tutto termina con l’amara considerazione circa il fatto che la professoressa in questione insegni in un Centro di formazione professionale.

5) «Ci sarà agli esami di riparazione?» 
Anche in questo caso segue un dibattito serrato. «No, mi dispiace: il mio contratto termina il 30 giugno» 
«Eh ma scusi: lei dà le prove per il recupero e non le somministra?» (*)
«Guardi, no: la scuola dovrebbe farmi un contratto solo per quel giorno»
«E non può chiedere lei di tornare?»
«No, per lo stesso motivo: dovrebbero farmi un contratto da un giorno»
«Ma a me sembra assurdo»
«Eh lo so: a me sembra assurdo anche che io debba chiedere la disoccupazione per x mesi fino a nuova nomina»
«Ma mio figlio quindi salta la sua estate senza avere certezze riguardo l’esame di riparazione?»

Se il dialogo prende questa piega, ogni spiegazione, pur ragionevole e razionale che viene offerta, si tramuta in un grande dialogo tra sordi in cui il genitore1 non riesce più a capire.
Beninteso: la logica, nel meccanismo delle supplenze, è assente.
Ci sono sicuramente altre domande e questioni che vengono poste ad ognuno di noi al termine delle lezioni ma le ho ristrette di numero al fine di non far sì che questo diventi un polpettone illeggibile. Come temo già sia. 

*L’abuso del verbo somministrare nel caso di verifiche e compiti in classe è tutto da studiare. Spero che qualche linguista/glottologo/qualcosadelgenere ne studi l’eziologia.

Nembro e il bar solidale. [La cooperativa? Un'alternativa alla crisi].

«Sai, la clientela è quasi sempre la medesima: siamo diventati il bar della piazza» e questo ha aiutato Gherim a riprendersi dai momenti negativi. Quelli legati al lockdown, ad esempio. Quando ero a Roma, durante gli anni scolastici del Covid, non sapevo neanche dove collocare Nembro sulla cartina. Ora che vivo da queste parti è tutta un’altra storia. Da quel momento in poi la storia di Gherim prende una piega diversa: «abbiamo attraversato varie fasi e, se devo dirti, non so davvero se riesco a ricordarle tutte». 

È il 16 maggio [2025] e, terminata la registrazione dell’intervista che sarà poi pubblicata il 19 su L’Eco di Bergamo, mi concedo un altro po’ di tempo con Francesca, la responsabile della bottega. La cooperativa ha affrontato un momento per niente facile da superare: qui la scure del Covid si è abbattuta con maggior forza ma da quel dì è passato un lustro. 

«All’inizio non capivamo minimamente cosa stesse succedendo: avevamo paura perché arrivavano notizie in continuazione di amici o parenti che si ammalavano e morivano nel giro di pochi giorni. In pochissimo tempo ci siamo trincerati in casa: non uscivamo più». Il paese era bloccato. Tredicimila anime alle porte di Bergamo, al principio della Valle Seriana, una delle principali valli bergamasche. «Con i miei genitori – continua Francesca – avevo stabilito un orario per le chiamate: se ci fossimo sentiti ad orari diversi da quelli prestabiliti, avrebbe voluto dire mettersi in ‘allarme’». 
«Le campane suonavano a morto sempre più spesso, poi il parroco ha smesso anche di farle suonare. Il silenzio nel paese era spettrale ed era rotto solamente dalle sirene delle ambulanze che pure, con il susseguirsi dei giorni e all’aumentare delle chiamate, hanno deciso di presentarsi in silenzio e senza annunciare la propria presenza». 
Ma, in un modo o nell’altro, Gherim ha retto. 
«Ci sono stati riconoscimenti, i famosi ristori per mancata produzione: non è stato tanto ma neanche poco. Gli affitti sono stati stornati, le utenze non hanno pesato così tanto (avevamo spento tutto), ai dipendenti è stata riconosciuta una percentuale senza andar a gravare sulla coop: ci si è messi in cassa integrazione, tranne quando, successivamente, abbiamo ricominciato l’attività» Ma anche la riapertura subiva continue oscillazioni e seguiva il flusso dei numeri pubblicati dai bollettini nel corso delle varie conferenze stampa serali: una situazione che continuava ad essere difficile da fronteggiare. 

«Come dipendenti c’erano solo Marco e Simona. Lei è venuta a mancare proprio quando sembrava che fossimo riusciti a venire a capo delle montagne russe delle continue chiusure e riaperture. Quando Simona ci ha lasciato ho pensato che fosse davvero troppo». Nei locali sopra il seminterrato in cui proseguiva la nostra conversazione, gli avventori del bar continuavano ad affluire: le risate spezzavano la tragicità del ricordo e gli ordini creativi di bevande, più simili a preparazioni galeniche che ad ordinari caffè, venivano enunciate una dopo l’altra.
«Passo dopo passo ce l’abbiamo fatta ma sono stati mesi pesanti», sospira Francesca.

Il 31 dicembre [2025] scadrà la convenzione col comune per la gestione dei locali e Nembro potrebbe non vivere più lo spazio del Modernissimo gestito da Gherim ma la cooperativa pare aver ricevuto in dote il dono della resistenza. La situazione vissuta cinque anni fa ha mostrato che l’organizzazione cooperativa può essere una risposta alla crisi: «saremmo, effettivamente, già naufragati», ha affermato Francesca. 
Il sistema cooperativistico può rappresentare la risposta alla crisi economica e sociale, al di là di chi ha speculato su tale sistema, sull’organizzazione in sé, compromettendone la funzione agli occhi dell'opinione pubblica. Certo è che «i volontari sono stati fondamentali: si sono rimboccati le maniche, hanno tamponato la mancanza di Simona fin da subito e hanno continuato ad essere una presenza costante successivamente». 
Dopo Simona, però, viene a mancare anche Sandro il responsabile della regia per gli eventi dell’Auditorium. Un'altra batosta.

«Una volta andato in pensione, aveva deciso di spendersi per la causa ed era qui tutti i giorni per svariate ore. Ha perfezionato tutto quel che era possibile, a regola d’arte. Ad oggi, il suo lavoro è stato sostituito da altri quattro. A detta loro "in quattro non riusciamo a fare quel che faceva lui" ma continuano a farlo per far sì che tutto il suo lavoro non vada sprecato, non riescono a sopperire alla sua professionalità, pur mantenendo in vita tutto quello che Sandro aveva costruito». 

Se si entra da Gherim per un caffè stando in piedi al bancone (come da prassi italianissima per la consumazione della tazzina) e si fa attenzione alla propria sinistra, si noteranno due foto: una di Simona e l'altra di Sandro. Un ricordo del prima perché il dopo non sia manchevole, soprattutto per chi non ha vissuto quella stagione
Qualsiasi cosa succeda dopo il 31 dicembre.

Maria alle prese col suo primo caffè.
Ultimo scatto di una Kodak usa e getta che ci è stata regalata dalle chicas Letizia e Francesca prima del viaggio in Vietnam. 

Evo Morales sostiene di essere candidabile, la legge dice di no.

Manifestante pro-Evo nel corso di una manifestazione in Ecuador [2013] - fonte Wikimedia commons

«Siamo pienamente abilitati a presentarci alle elezioni. È impressionante il sostegno che stiamo ricevendo: sono sicuro che vinceremo le elezioni col 60%!». A parlare alla ristretta cerchia di militanti giunti dalle più remote province del paese, è Evo Morales, già presidente dello Stato plurinazionale della Bolivia e da più di due anni diretto avversario dell’attuale presidente Luis Lucho Arce Catacora. Non ci sarebbe niente di strano in quest’affermazione se non fosse che Evo e Lucho fanno parte, perlomeno ancora formalmente, dello stesso partito: il Movimento al socialismo-Strumento per la sovranità dei popoli (Mas-Ipsp).

Da due anni Evo sta spaccando il partito giungendo alla creazione di quel che è stato definito un Mas-parallelo rispetto a quello istituzionale e riconosciuto giuridicamente. In queste settimane, però, Morales è messo alle strette dalla giustizia: il tribunale di Tarija lo ha accusato di violenza sessuale su di una minorenne, fatto che risalirebbe attorno a due lustri fa. L’ex presidente non si sta presentando in tribunale, nonostante le convocazioni, e su di lui ora pende un mandato di cattura: obbligato al domicilio presso la sua residenza, non può uscire dalla regione del Chiapare in cui si sente protetto da settori politici, sindacali e dell’associazionismo legati alla realtà dei cocaleros che pure presiede.

Un outsider?
Il personaggio vicino a Evo che sta emergendo in questa circostanza è Andronico Rodriguez, giovane esponente del Mas-Ipsp, vicepresidente del Senato, è sostenitore della fazione anti Lucho. È lui a rappresentare il volto nuovo della fazione evista nonché la possibile cerniera tra le due correnti politiche. Tuttavia, sebbene la stampa boliviana abbia diffuso notizie che prevederebbero un possibile accordo di pacificazione nel partito prevedendo Arce candidato alla presidenza e Rodriguez come vice, lo stesso senatore si è detto indisponibile al tandem. «Ci sono state speculazioni e informazioni false che hanno attribuito il mio nome addirittura come candidato alla presidenza», ha dichiarato Andronico Rodriguez l'8 febbraio [2025] in un comizio dei sostenitori di Morales tenutosi nella città di Cochabamba, «il movimento popolare che si è unito attorno al nome di Evo Morales lo sosterrà [ancora] alla presidenza in vista delle prossime elezioni». Come a volersi smarcare dalle ricostruzioni della stampa, ha ribadito il proprio sostegno all'ex presidente. Chissà, però, che non succeda il contrario: in fondo alcune dichiarazioni servono in determinate circostanze specifiche ma lasciano il tempo che trovano nel lungo periodo. Succede così anche in Italia, d'altra parte.

Divisioni interne ed esterne
«È evidente che ci sia uno scontro tra gruppi di potere. Poche persone vorrebbero far naufragare il percorso che fece nascere lo strumento politico. Non so, davvero, come mai Evo Morales voglia tornare al potere costi quel che costi, giungendo a voler dividere e spaccare il Mas, così come le organizzazioni sociali che ne fanno parte», ha dichiarato raggiunta al telefono Julia Damiana Ramos Sanchez, vice presidente della direzione nazionale del Mas-Ipsp e direttrice esecutiva delle Bartolinas (l’organizzazione femminile del partito) della regione di Tarija. Già deputata nel primo esecutivo Morales, successivamente ministra, Ramos Sanchez conosce bene quel che orbita socialmente e politicamente attorno all’ex presidente: «C’è stato un referendum nel 2016» – ha aggiunto - «e il risultato ha espresso chiaramente come Evo non possa continuare ad essere candidato all’infinito, tanto più che non può farlo legalmente data la Costituzione». Costituzione che lo stesso Morales modificò una volta al potere, così come mutò anche lo status giuridico della Bolivia divenuto «Stato Plurinazionale» al fine di valorizzare ogni componente indigena e originaria del paese.

Ma questo ora a Evo non importa più.
Vuole tornare al potere a tutti i costi e per farlo incita parti di organizzazioni sociali a lui fedeli di bloccare le principali strade del paese, di scendere in piazza quasi giornalmente, di diffondere notizie false tramite Radio Kawsachun Coca. Da settimane militanti a lui vicini stanno raggiungendo il suo domicilio, riunendosi con lui presso i locali della Seis federaciones, per «dimostrargli l’affetto e il sostegno politico». Una settimana fa una porzione consistente dei presidenti delle municipalità del dipartimento della capitale politica (La Paz) hanno riconosciuto Evo come candidato alla presidenza alle prossime elezioni che si terranno in agosto. Per dare un’idea dello scontro in atto: il 22 gennaio dello scorso anno i blocchi stradali messi in atto dai sostenitori dell’ex presidente sono durati più di due mesi e avevano paralizzato le principali arterie autostradali. Secondo l'Istituto boliviano per il commercio estero, in quei giorni il paese «perse circa 75 milioni di dollari al giorno». Un dato nefasto per la Bolivia che sta affrontando una crisi economica che si riflette in ogni ambito della vita delle persone: produttiva e sociale.

«In Bolivia c’era crisi ieri, c’è oggi e ci sarà domani: non è una novità. Evo sta utilizzando la situazione per scopi politici e soprattutto per coprire le accuse pendenti nei suoi confronti», ha spiegato da El Alto, alla periferia del mondo, don Riccardo Giavarini, direttore generale della Fundacion Munacim Kullakita. Bergamasco di Telgate, missionario laico, è in Bolivia dal 1977 ma sacerdote dal 2023, dopo aver ripreso gli studi di teologia interrotti a seguito della vita matrimoniale con Bertha Blanco (tra le fondatrici del Mas-Ipsp) venuta a mancare nel 2020 a causa del Covid.

La violenza è ovunque
L’accusa più grave a cui Morales deve far fronte è quella di abuso sessuale di una minorenne (come s’è accennato sopra): il tribunale della città di Tarija ha sancito che non può allontanarsi dal paese ed è stato anche emanato un ordine di cattura nei suoi confronti. Sollecitato per tre volte a presentarsi in tribunale, Morales ha sempre disertato l’aula. «Il punto è che Evo è dipendente dall’abuso di donne e di ragazze minorenni in termini di tratta e traffico», tuona Giavarini, che di questi argomenti ne sa qualcosa dato il suo impegno quotidiano con la struttura che dirige.

Il quotidiano boliviano «La Razon», che pure sarebbe vicino alle istanze del Mas-Ipsp, nell’edizione di lunedì 3 febbraio [2025] ha pubblicato numeri piuttosto eloquenti riguardo lo sfruttamento minorile nel paese: «In 11 anni si sono registrati 6.001 matrimoni tra uomini e ragazze minorenni la cui età si aggira tra i 16 e i 17 anni». Ancora: «nel 6,06% dei casi registrati l’età dello sposo è fino a tre volte superiore a quella della sposa». Una situazione evidentemente esplosiva che rappresenta, purtroppo, un costume diffusissimo nel paese.

«Nel carcere minorile di Qalauma [nella città di Viacha] i delitti riconducibili alla violenza sessuale sono tra i più commessi», afferma Giavarini «manca una vera educazione sessuale, alla reciprocità e non vengono veicolati messaggi ed esempi positivi da parte delle istituzioni (che siano governative o scoladtiche); si sono naturalizzati dei comportamenti che vedono la figura femminile solo come strumento di piacere maschile. La donna non è vista come portatrice di soggettività, partecipazione, dignità e uguaglianza: qui a El Alto le ragazzine popolano i locali notturni».

La situazione, dunque, sembra non possa giungere ad una soluzione rapida. Anzi. Lo scontro tra fazioni del Mas-Ipsp, così come quello delle organizzazioni sociali ad esso legate, parrebbe essere destinato ad una recrudescenza sempre maggiore: sulle elezioni che si terranno ad agosto aleggia lo spettro di nuovi scontri sociali, com’è avvenuto per il tentato golpe dello scorso anno e per la Marcia per la vita a cui hanno partecipato i sostenitori di Morales il 14 gennaio [2025] terminata in scontri, lanci di molotov da parte dei manifestanti e lacrimogeni da parte della forza pubblica. La Bolivia, secondo paese al mondo per colpi di stato (35, dietro al Cile che ne vanta 36), non ha ancora trovato una stabilità nella democrazia.


Pubblicato su Pressenza il 17 febbraio 2025

«Los viejos soldados», una guerra lunga una vita

Jorge Sanjines con Roberto Choquehuanca e Cristian Mercado. Fonte foto: "Fundacion Grupo Ukamau" ©.

«Questo film indaga nella profondità della società boliviana e cerca di porsi la domanda: è possibile l'amicizia fra un bianco e un originario [aymara]?». A parlare è Jorge Sanjinés, tra i più celebri registi della Bolivia, durante un'intervista di promozione del suo ultimo film Los viejos soldados (I vecchi soldati). La trama segue un adagio politico e sociale: a partire dall'amicizia di due soldati [Guillermo (bianco) e Sebastiàn (aymara)] si dipana la matassa della storia contemporanea boliviana a partire dalla Guerra del Chaco. Vale la pena citare nuovamente il regista:

«[Il film] parla di un disaccordo [desencuentro] presente nella società boliviana: tra città e mondo rurale, dunque tra abitanti originari, indigeni e discendenti bianchi e meticci degli invasori spagnoli [...] Il film che abbiamo realizzato cerca di produrre una profonda riflessione su questo fenomeno pernicioso che ha radici profonde, forse tanto immense da essere impossibile analizzarle e contenerle, ma è inevitabile provare a fare luce, fare appello alla fantasia e all'amore per risolvere questo pericolo in agguato se non viene affrontato».
A tal riguardo, è bene citare anche un documento del 2004 prodotto dalle Nazioni Unite intitolato Disuguaglianza, cittadinanza e popolazioni indigene in Bolivia che analizzava in questo modo la discrepanza esistente tra i bianchi e la popolazione indigena:
«Circa il 62% della popolazione boliviana si considera indigena, di cui la maggioranza è di origine quechua e aymara. Di questo totale, il Il 52,2% vive nelle aree urbane e il 47,8% nelle aree rurali. Il 78% delle famiglie indigene povere non ha accesso all’acqua potabile, il 72% di esse non dispone di servizi igienico-sanitari e il loro tasso di mortalità infantile è il più alto del Sud America».
La descrizione fornita dal documento dell'Onu cattura un fermo immagine del 2004, dunque di vent'anni fa e la situazione parrebbe essere decisamente mutata in favore di una riconsiderazione al rialzo di quella percentuale che si riferisce alle popolazioni indigene, in particolar modo riferita agli aymara. Specie se si considera che, a seguito della prima vittoria elettorale del Mas, Evo Morales Ayma, diventando presidente del Paese, ha avviato un percorso di de-colonizzazione spagnola in favore della cultura aymara (e originaria tout court) procedendo anche a cambiare la Costituzione e adottando il nome di Stato Plurinazionale di Bolivia. Il florilegio di culture presenti nel paese andino è stato, così, dichiarato costituzionalmente e nominalmente. Ma torniamo alla trama, perché Sanjinés ha detto che è stata proprio la Guerra del Chaco a far fare due passi indietro e uno avanti (Vladimir Il'ič Ul'janov, ora pro nobis) alla Bolivia:
«Perdemmo cinquantacinque milioni di soldati ma guadagnammo la coscienza per cambiare il paese da un regime feudale a uno democratico».
È su questa linea che si sviluppa la storia personale di Sebastiàn e Guillermo, fin da subito un intreccio di storia personale e sociale della Bolivia intera. Non manca qualche ingenuità (forse dovute dall'eccessivo ricorso alle cesure) nell'ordito della trama in quanto i due riescono a scappare dal fronte e, sebbene stremati al termine della fuga, a riprendere quasi immediatamente la connessione con una vita quanto più possibile normale e ordinaria. L'amicizia tra i due si salda con la promessa di incontrarsi nuovamente al fine di darsi da fare per far cambiare direzione al paese: nelle trincee c'era chi parlava di socialismo e Sebastiàn aveva rivelato a Guillermo che nel campo gli aymara vivevano in piccole comunità (la sua era quella immaginaria di Orco Chiri) che non prevedeva l'utilizzo di moneta né conosceva la proprietà privata. Un piccolo socialismo in nuce, quello aymara, alle orecchie di Guillermo. Come tralci di una medesima pianta di vite, i due si allontaneranno per continuare a cercarsi nel corso degli anni '50, gli anni di una prima rivoluzione, sebbene poi soffocata da svariati colpi di stato (ma sull'aspetto strettamente politico non ci soffermeremo). Dopo aver fatto ritorno ad Orco Chiri, passato più o meno un lustro, l'ex soldato aymara lascia moglie e figlio perché vuole andare in città a riprendere contatti col suo vecchio commilitone e unirsi ad un cambiamento rivoluzionario di cui gli giungono solo lontanissime eco; il blanquito, invece, a scuola (diventa insegnante di storia) si innamora perdutamente di una collega aymara, la cui presenza aveva destato più di qualche contrarietà nella comunità bianca e conservatrice (per non dire razzista). Sebastiàn diventa minatore, fa parte del sindacato ma, nel momento in cui vorrebbe tornare a Orco Chiri, non riuscirà perché gli anziani della comunità non glielo permettono. In realtà la sequenza finale vale, da sola, tutta l'ora e mezza del film: Sebastiàn è ormai un dirigente (fa parte del controllo operaio) della Comibol, cioè l'impresa statale per la gestione delle miniere, mentre ormai da un paio di decenni Guillermo è parte integrante della comunità aymara della moglie. I ruoli si sono scambiati: chi prima era affascinato dalla cultura campesina ora riesce a parlare la lingua aymara (Guillermo) mentre Sebastiàn è un alto funzionario che si sposta in Mercedes per le vie di La Paz, vestendo in giacca e camicia alla maniera occidentale. Carne da cannone Per il comando boliviano durante gli anni della guerra del Chaco, gli aymara e i quechua erano poco più che carne da cannone, tanto da relegarli in apposite compagnie in cui i bianchi non erano presenti: «Il destino dei soldati boliviani alla fine fu a dir poco [la rappresentazione di una] tragedia», ha sottolineato Esther Breithoff nel suo saggio Conflict, Heritage and World-Making in the Chaco: War at the End of the Worlds?. Il film vuole anzitutto spiegare questo distacco che era presente nella società boliviana: gli uomini dei popoli originari venivano «separati dalle loro famiglie» spesso con violenza (prima sequenza del film) e portati in un contesto completamente differente dall'altipiano boliviano.
«"Servirono come carne da cannone negli errori di comandanti inetti" (Querejazu Calvo 1975, 131). Nonostante ciò, hanno dimostrato una grande dose di coraggio. Nonostante il caldo, la fame e la sete che li torturavano nel Chaco, continuarono a difendere un lembo di terra che alla fine non significava nulla per loro».

La separazione tra le due realtà è presente anche nella Bolivia odierna: i blanquitos sono anche chiamati gringuitos, in senso dispregiativo. L'adagio politico-sociale del film sta tutto nel riscatto indigeno e nel nuovo corso della Bolivia: segnato positivamente, come mostra Sanijnés nel suo film, dal concorso delle popolazioni indigene al nuovo corso democratico del paese. La nuova storia della Bolivia, dunque, che le popolazioni originarie hanno contribuito a scrivere (o meglio ri-scrivere) soprattutto a partire dal momento più drammatico della storia del paese. 

«Esiste un piano Usa per spaccare il Mas dall'interno», ma è Morales ad aver cominciato

«Le informazioni trapelate dall’ambasciata Usa in Bolivia mostrano chiaramente che esiste un piano per la ri-colonizzazione del nostro paese. E questo sarebbe possibile andando alla rottura del Mas per cercare di candidare un outsider alle prossime elezioni per conto del Mas». Evo Morales, Presidente del Mas-Ipsp e autoproclamatosi candidato del partito per le elezioni del 2025, legge pubblicamente un documento «siglato il 18 aprile dall'ambasciata degli Usa in Bolivia», ha assicurato, nel corso della manifestazione di ieri [17 agosto 2024] a Caranavi (piccola cittadina nella regione de las yungas a nord est di La Paz). «Stanno cercando di spaccare il Mas per prendersi il litio e le terre rare del nostro paese, hermanos», dice Morales leggendo il documento  e arringando la folla ammutolita in religioso silenzio. «Eso nunca, Evo! [Questo non succederà mai, Evo!]», urla qualcuno: la tensione si rompe fragorosamente in un applauso in sostegno a Morales. Il discorso continua e si conclude in una festa nella cittadina yungeña. Dopo le tensioni verificatesi nel partito a seguito dell’annuncio della sua candidatura, nonché dopo aver di fatto – spaccato in due il Mas tra evisti (tendenza di sostenitori e fedelissimi di Evo Morales) e arcisti (tendenza di sostenitori del Presidente boliviano Luis Arce Catacora e del vicepresidente David Choquehuanca), Morales sembra aver preso in mano la situazione e sta calando tutti gli assi che ha in mano.

Un candidato outsider?

Questa sarebbe la rivelazione resa da Evo Morales mentre parlava dal palco allestito per la manifestazione svoltasi a Caranavi. L’obiettivo dei gringos sarebbe il medesimo di sempre: appropriarsi delle ricchezze della Bolivia, specie nella fase attuale in cui l’occidente politico ha sempre maggior necessità non già di idrocarburi, quanto di terre rare e litio. Materie di cui la Bolivia è indubbiamente molto ricca. Un candidato terzo che non proverrebbe dalle fila del Mas sarebbe il colpo di teatro «dell’impero nord americano», nonché di parti della borghesia boliviana: dopo il tentato golpe che ha coinvolto settori deviati dell’esercito e dello Stato maggiore boliviano, gli Usa – sostiene Morales – si starebbero preparando a «spaccare il Mas dall'interno».

Il comizio di Evo Morales a Caranavi | 17 agosto 2024 | Fonte: pagina Facebook Evo Morales Ayma.

Chi spacca cosa?

Uno scenario di intromissione nel processo elettorale di un paese sudamericano non rappresenta, nei fatti, una novità per la politica internazionale. Non serve riesumare la dottrina Monroe nella sua riformulazione rooosveltiana (così come pure ha ricordato Morales dal palco di Caranavi), basti pensare ai colpi di stato palesemente eterodiretti dagli Usa nella regione. Il golpe nei confronti della prima vittoria di Hugo Chavez in Venezuela, per rimanere nei primi anni del nuovo millennio, ne fu un chiaro esempio. Sebbene sia del tutto plausibile, tuttavia la spaccatura del Mas non sarebbe da imputare a nessun altro se non a Evo Morales stesso. Ad ottobre dello scorso anno [2023], Evo Morales ha tentato il colpo di mano sul Mas, di cui è tutt’ora Presidente, come già ricordato (la carica giuridicamente più importante) convocandone la parte del partito a lui fedele in un congresso-farsa nel dipartimento di Cochabamba, nella cittadina di Lauca Ñ e da lì è cominciata a venir giù la metaforica e proverbiale slavina. Il partito si è spaccato e ora esistono due Mas che sono letteralmente l’uno contro l’altro.


Casus belli

Si aggiunga la questione della cosiddetta auto-proroga dei giudici: il Presidente Arce sostiene la proroga dei giudici di quella che in Italia chiameremmo Corte Costituzionale e che invaliderebbe la candidatura di Morales alle presidenziali. Non essendosi ancora tenuta la votazione popolare che sostituisca i membri decaduti a dicembre 2023, il Governo li ha prorogati de facto. Evo ha mostrato i muscoli e ha proceduto con i suoi mezzi: blocchi stradali in tutto il paese. Dal 22 gennaio a metà febbraio [2024] i sostenitori di Morales (che guida la sua corrente dal fortino di Cochabamba) hanno paralizzato le principali strade e autostrade del paese, in particolare l’arteria Oruro-La Paz, attuando blocchi stradali, interrompendo commerci, trasporti pubblici e privati. Secondo Gary Rodriguez, portavoce dell’Ibce (l’Istituto boliviano per il commercio estero), in quei giorni «l’economia boliviana ha perso circa 75 milioni di dollari al giorno». Ma la faccenda non si è conclusa neanche in quel caso. Se Morales ha convocato il congresso ad ottobre [2023], riconvocandone poi un secondo nel marzo [2024] (chiamato ampliado), Arce ha risposto chiamando l’assemblea congressuale a El Alto nel mese di maggio. Per l’amministrazione e la burocrazia boliviana, però, nessuna delle convocazioni è giuridicamente valida: nessuna delle assemblee è stata riconosciuta come propria del Mas così come nessuna ha avuto il placet per la registrazione del nuovo statuto che entrambe le parti hanno riscritto in separata sede. Nel corso di questo braccio di ferro politico si è inserita la divisione all’interno di ogni singola organizzazione sindacale, sociale e interculturale che orbita attorno al partito, tanto che il 2 marzo il grande incontro (in aymara: Jach’a Tantachawi) tenutosi a Oruro e promosso dal Conamaq (il consiglio nazionale delle popolazioni indigene del Qullasuyo) è terminato a pugni e sediate, con tanto di intervento della forza pubblica. E sì che l’organizzazione doveva scegliere un nuovo rappresentante tra due entrambi del Mas. Manco a dire ci fossero davvero esponenti outsider o della destra. I rapporti tra le due ali del Mas sono andati deteriorandosi sempre di più quando ad inizio giugno [2024] il presidente del Senato Andronico (Mas, vicino a Morales), in sostituzione al presidente assente e al vice Choquehuanca in missione all’estero, ha fatto in modo di far approvare la destituzione dei componenti del tribunale che invaliderebbero la candidatura di Evo nel corso di una seduta parlamentare. Le elezioni popolari non sono state, tuttavia, ancora indette e la proroga dei giudici continua ad esserci de facto. L’azione di Andronico non ha fatto altro che inasprire ancora di più le parti in lotta nel Mas e nella società boliviana.

E ora?

Forse dopo il tentato golpe ai danni della presidenza di Luis Arce Catacora, la Bolivia dovrà davvero fare i conti con il peso specifico dell'autocandidato Evo Morales. In questi mesi (quasi una gestazione) la società boliviana si è atomizzata ed è stata polverizzata a tal punto che risulta verosimilmente impensabile che le due parti in lotta all’interno del Mas possano siglare un accordo di tregua, sedendosi pacificamente attorno ad un tavolo per concludere delle trattative. E i candidati alle elezioni del 2025 continuano a essere due: Evo Morales e Luis Arce.

Pubblicato su La Rinascita - delle Torri

Tra Gesù di Nazareth e Karl Marx: la scelta (e la vita) di “Miguel”


Lo scorso anno, prima della partenza per la Bolivia, ci [a Maria e me] è stato regalato un libro [grazie Giusi!] scritto da Luca Bonalumi attorno alle disavventure rivoluzionarie di Antonio Caglioni a Viloco e nel paese che l'ha ospitato per molti decenni. Una volta giunti dall'altra parte del mondo, siamo andati a conoscere Antonio Caglioni e abbiamo trascorso del tempo con lui, pur alloggiando a Cairoma (cittadina vicina a Viloco).

Per chi volesse, questi sono i due link agli articoli scritti a Cairoma su Antonio Caglioni e sul sistema sanitario a 5200 metri d'altitudine: Il sacerdote rivoluzionario alla fine del Mondo e Sanità pubblica e privata in Bolivia. Cercando l’assistenza capillare, trovando disordine generale.

L'introduzione al libro di Bonalumi è firmata da Don Emilio Brozzoni, sacerdote come Antonio Caglioni (a cui è davvero difficile anteporre il don davanti al nome, ma questo - a parere di chi scrive - rientra tra i pregi piuttosto che nell'ambito opposto dei difetti), bergamasco come lui, ma fenomenologicamente agli antipodi.

Don Emilio nell'introduzione racconta di un episodio curioso: una volta ricongiuntosi con Riccardo Giavarini a La Paz (don anche lui ma da soli due anni), decidono di andare a trovare Antonio Caglioni a Viloco. Il viaggio è lungo, le strade non sono agevoli ma finalmente - dopo varie ore di fuoristrada - riescono ad arrivare là, "alla fine del mondo", a cinquemila metri d'altezza, ai piedi delle montagne popolate dai minatori di stagno in cerca della vena grande.
È il 1990, è notte e - c'è da immaginarselo - c'era una stellata meravigliosamente impressionante, data l'assenza di lampioni e illuminazioni per le vie della cittadina. Don Emilio, che immaginiamo si fosse già abituato alla mancanza d'ossigeno, riesce a prendere sonno e a dormire piuttosto bene, almeno fino a quando viene svegliato di soprassalto.

Di colpo, i tre (Caglioni, Giavarini, Brozzoni) sentono di non essere più soli: Don Emilio si sveglia e pensa ai ladri. Poi si guarda intorno: "ma che si ruberanno mai, qua" (di certo lo avrà pensato in bergamasco).
È un attimo: un uomo armato fino ai denti gli punta un fucile: «Eres Miguel?! [Sei Miguel?]» gli chiede insistentemente.

Non sa di cosa stia parlando e il commando armato si fa insistente: stanno cercando un Miguel, ex prete mezzo italiano, mezzo tedesco, e loro, tutti e tre italiani (due consacrati e un laico), senza documenti, sembravano essere il bersaglio perfetto. Miguel si sarà nascosto da quelle parti, ai piedi delle montagne popolate dai minatori per sfuggire allo Stato.

Però don Emilio non era Miguel e, nel testo d'introduzione al libro di Bonalumi, scrive un aneddoto molto divertente di quella notte in cui, dopo aver conosciuto personalmente Riccardo Giavarini, sono sicuro che si sia verificato esattamente come don Emilio ha raccontato: nel mezzo del trambusto, di uomini armati che fanno irruzione a casa di don Antonio, Riccardo cerca di placare gli animi chiedendo se - in piena notte - prendessero un caffè per poter parlare e chiarirsi.

«[…] Mi fanno alzare dal letto (mani in alto), mettere pantaloni, scarpe e giacca a vento. Bontà loro, niente manette ai polsi. Mi vogliono immediatamente portare a La Paz. Riccardo intuisce che la situazione è grave e vuole intavolare un minimo di dialogo: “Prendete un caffè o un tè? Siete stanchi e la strada è lunga”»1.

Ma chi era Miguel?

Michael Miguel Nothdurfter era un italiano-sudtirolese di Bolzano che ha avuto una vita piuttosto intensa, una di quelle storie da raccontare, sebbene il tragico epilogo che ha avuto, ovvero ucciso in un conflitto a fuoco con la polizia boliviana.

Scrive ancora don Emilio nell’introduzione al libro di Bonalumi:

«[…] Alle tre di notte cinque di loro con il mitra circondano la casa di don Antonio e tre in borghese sfondano la porta. Sono i tre che mi ritrovo davanti con le pistole puntate. Finalmente viene a galla il motivo di questo trambusto. È stato rapito il figlio del padrone della Coca Cola in Bolivia. È ricercato un “terrorista” (così lo definiscono) altoatesino, da ragazzo studente in un seminario di gesuiti, impegnato politicamente con gruppi estremisti… Il filo logico è chiaro. Hanno davanti un italiano, senza passaporto, col breviario, nella casa di padre Antonio2, in una regione fuori dal mondo. È lui. È Miguel. Sentono già profumo di promozione».

Ma facciamo un passo indietro e riavvolgiamo il nastro.

A te che leggi: abbi pazienza. Sarà piuttosto lunga.

Il comandante Gonzalo va alla guerra

La vicenda di Nothdurfter viene raccontata dettagliatamente da Paolo Cagnan in un libro pubblicato nel 1997 [Il comandante Gonzalo va alla guerra, erremme, 20.000 lire, 175 pagine] ed è colmo di riferimenti, racconti, testimonianze raccolte in loco, chilometri macinati tra le città boliviane.

«Caro Fratello, il tempo speso con i minatori di Potosì mi ha avvicinato alle persone. Le cose per la Bolivia si stanno mettendo molto male. Il peso è stato svalutato, i salari sono rimasti stagnanti: per le strade è possibile vedere persone che piangono. Sono molto scioccato e solo a vederli anche i miei occhi si appannavano»3.

Nothdurfter giunge in Bolivia il 26 agosto del 1982 dopo aver contattato la Compagnia del Gesù richiedendo di entrare a farne parte. Prima di questa sua decisione c’è stato il diploma di liceo classico e l’aspirazione a diventare prete:

«All’ultimo anno del liceo, in occasione degli esami di maturità, Michael conosce un missionario del seminario teologico di San Giuseppe di Bressanone, e resta così colpito dalla sua figura che decide di seguirne la strada. Quando comunica ai genitori la volontà di farsi prete e diventare missionario, la sorpresa non manca, ma i segni premonitori dii una vocazione religiosa erano già stati avvertiti in famiglia»4.

Parte per Londra e segue il primo anno di noviziato al «Mill Hill» per poi approdare a Roosendal, in cui trascorrerà il secondo anno.

Si rende conto di essere in un’isola dorata e quel mondo, l’Occidente, già non gli basta più: vuole stare a contatto con chi ha davvero bisogno del messaggio di Cristo e della sua potenza rivoluzionaria.
Si rende conto di essere fortemente attratto dalla Teologia della Liberazione e dal comunismo: studia gli scritti di Karl Marx, si interessa di quel che accade in America Latina e di quello che i Gesuiti stanno portando avanti nel Continente.
Nel 1982 è a Cochabamba dopo un viaggio di «147 ore fra autobus e treno»5 ma, anche lì, i vestiti sono stretti, metaforicamente parlando:

«La mia opzione politica è un’opzione per il marxismo. Marx ha dato al mondo dei lavoratori se non una soluzione, per lo meno un compito e una speranza. Per questo motivo non esiste, nel mondo dei lavoratori, un solo gruppo politico che non sia in qualche modo marxista […] il marxismo è la via maestra per risolvere le straordinarie ingiustizie sociali che costituiscono la fonte principale dell’oppressione. E questo non con alcuni cerotti, ma con un cambiamento radicale dell’attuale sistema»6.

Le parole di Michael sono macigni: sta cercando di essere e di porsi come cerniera tra il mondo dell’utopia socialista e quello del cristianesimo agìto, reale, praticato e non clericalizzato in rigide strutture opprimenti.

Seguire l’insegnamento di Cristo significa uscire all’esterno e aprirsi al mondo e non rimanere ancorati alla realtà del noviziato, scrive ancora Michael nell’aprile 1984 da Cochabamba:

«In confronto al “popolo semplice” viviamo in una casa di lusso. […] Con alcuni colleghi abbiamo pensato di modificare l’orario delle lezioni, della preghiera e della celebrazione eucaristica in modo tale da avere la possibilità di fare qualcosa, di parlare con la gente, di condividere i suoi problemi. Questa possibilità ci è stata negata. […] “È come se io non vivessi in Bolivia, ma in un’isola”, pensa uno di loro. Dobbiamo imparare ad amare i poveri. Lo chiamiamo “giocare ad esser poveri”. Al contrario noi non vogliamo giocare, ma vivere a contatto con i poveri in maniera autentica. E questo signiffica, in maniera molto semplice, condividere la loro vita. […] Se dovessimo arrivare alla conclusione che questa nostra strada nella Compagnia dle Gesù non ci può portare laddove noi vorremmo, siamo pronti a cercarla altrove»7

A maggio dello stesso anno scriverà al fratello Othwin di aver abbandonato i Gesuiti.

L’animo di Michael è in continuo fermento e ricerca: si iscrive all’Università Mayor “San Andrés” (Umsa) in cui entra in contatto con i gruppi marxisti (trotskysti, marxisti-leninisti ma anche socialisti e socialdemocratici. La Bolivia è un paese che non trova mai quiete, politicamente e socialmente parlando: sono anni difficili e quel che in Italia abbiamo definito “trasformismo” a fine ‘800, nel paese più povero dell’America Latina rappresenta la normalità.

Scriveva il «Manchester Evening News» nel 1960:

«In Bolivia le rivoluzioni sono quasi [da considerare] uno sport nazionale. Ce ne sono state 179 negli ultimi 130 anni. Una volta è capitato che ci fossero anche tre presidenti in uno stesso giorno»8.

Veduta di La Paz dal mirador Killi Killi
 
Certo, sono passati ventiquattro anni da quando Nothdurfter è arrivato in Bolivia, ma la situazione non pare essere cambiata più di tanto: sono gli anni post golpe di Garcia Meza (1980-1981) in cui viene creata una nuova parola per indicare quel governo. Narcodictadura.

Tutti i presidenti, non militari, succeduti all’ultimo golpe, sono riconducibili al Movimento nazionalista rivoluzionario e al Movimento della sinistra rivoluzionaria ma è un chiaro esempio di “socialist sounding”: le alleanze, pur di conservare il potere ottenuto dalle elezioni, fanno convergere interessi molteplici. Interessi rappresentati anche dai partiti di ex militari e apertamente anticomunisti-socialisti e dichiaratamente fascisti.

Strana idea della rivoluzione, strana idea di sinistra.

Nothdurfter guarda, vive tutto questo ed è esterrefatto: il paese langue, la politica sbandiera una rivoluzione che non vuole iniziare (figurarsi se voglia un giorno portarla a compimento!) e i marxisti sono divisi. Bisogna far qualcosa, pensa Michael.

Inizia la sua esperienza con il teatro popolare nelle «borgate proletarie e nelle zone minerarie» mettendo in scena spettacoli che denunciano ingiustizie sociali e lo sfruttamento delle masse. Insieme a quest’attività, si avvicina sempre di più alle idee di Ernesto Che Guevara: c’è bisogno della rivoluzione. Quella vera, però, quella che si fa con le armi.

Nel novembre 1986, in un’altra lettera ad Othwin, dichiarerà la sua intenzione ma in lingua spagnola:

«D’ora in poi ti scriverò sempre in spagnolo, perché non mi va che la mamma legga le mie lettere dirette a voi. Non potrebbe capire le mie attitudini “estremiste”»9.

Non c’è altro tempo da perdere: i poveri sono sempre più poveri, i ricchi vedono accrescere sempre di più il loro patrimonio, la sinistra è divisa, la politica strizza l’occhio ai grandi capitalisti e affama il popolo.

«[…] La sinistra boliviana sta vivendo una crisi profonda nella quale nessuno si salva. Per questo motivo bisogna costruire qualcosa di nuovo. […] Non sarà facile. […] Occorreranno molte ore di discussione, ma soprattutto molti giorni di silenziosi sacrifici, e semplice dedizione, molte vite e molti morti, molte lacrime e molto sdegno, innumerevoli momenti di solitudine politica, di dubbi e debolezza ideologica. Io, però, sono deciso – assieme alla mia organizzazione – per dare tutto ciò che posso dare d me stesso, poco a poco, accelerando ogni giorno il ritmo»10.

E ancora, l’anno successivo:

«Mi trovo più o meno d’accordo con quanto sostiene Lenin in Stato e Rivoluzione in relazione alla necessità di farla finita con lo Stato stesso, che implica violenza rivoluzionaria. O con quanto dice il Che: “Non esiste pratica rivoluzionaria senza lotta armata”. Senza dubbio, però, bisogna contestualizzare. Tatticamente la violenza può essere controproducente, ma dal punto di vista strategico rappresenta una necessità imperiosa»11.

Inizia a militare davvero: aderisce prima ad un partito, poi ad un secondo entrambi marxisti, rivoluzionari e nazionalisti ma nessuno di essi ha quel che fa per lui, che ormai è diventato pienamente boliviano e non è più Michael ma Miguel. Abbandona entrambe le organizzazioni e decide di creare un gruppo insieme ad altri fuoriusciti. È la fine del 1988 e l’inizio del 1989. Il Muro di Berlino sta già scricchiolando e l’Unione Sovietica è a un passo dalla fine, ma questo, Miguel, ancora non lo sa né vedrà la fine dello stato sovietico.

Passano gli anni, cruciali, 1986 e 1987, dopodiché è rivoluzione: il clima politico (o, per meglio dire: il caos politico) presente in Bolivia favorisce l’inclinazione e l’opzione – per citare Nothdurfter – per la lotta armata.

«Considero un compito principale della mia vita contribuire a condurre una vera rivoluzione in Bolivia e in qualunque altro posto mi tocchi vivere»12.

Il 1989 è l’anno del primo “esproprio proletario” con cui Michael Nothdurfter e il suo gruppo di rivoluzionari, che nel frattempo s’è coagulato attorno a lui.

La prima vera operazione (e anche l’ultima) si chiama operazione Bautizo: si dovrà rapire un pezzo grosso del capitalismo boliviano, uno che ha implicazioni anche con l’economia americana. Il nome ricade su Jorge Lonsdale, presidente di Vascal S.A., azienda concessionaria unica per la distribuzione della Coca-Cola (e bevande del gruppo statunitense) in Bolivia. C’è anche il nome, ora, del gruppo: Comision Nestor Paz Zamora (Cnpz)
 

Il nome scelto non è casuale: Jaime Paz Zamora, presidente boliviano appena eletto, è rappresentante del Movimento della sinistra rivoluzionaria ma per mantenere il controllo dello Stato – e traffici a cui s’è accennato sopra – non ha esitato ad allearsi con i fascisti dell’alleanza nazionalista vicini a Banzer Suarez. Scrive Miguel:

«Nestor è il fratello dell’attuale Presidente della repubblica ed è morto durante un’azione di guerriglia a Teoponte. Nestor è l’opposto di Jaime: il primo era un rivoluzionario e cristiano convinto e come tale si è comportato sino alla morte. Il secondo si è alleato con l’ex dittatore Hugo Banzer»13.

Poi arriva davvero il colpo: il sequestro riesce e dura mesi senza che la famiglia dell’industriale sia realmente interessata a riavere Lonsdale. Attorno al sequestro e al suo epilogo ci sono un mucchio di cose che non quadrano e che sia il libro di Paolo Cagnan sia i due docufilm prodotti espongono come criticità attorno al fatto. Tra i fatti che non tornano14 ci sono: Lonsdale presenta dei fori da arma da fuoco che non quadrano con le dichiarazioni della polizia, Miguel venne accusato subito (anche perché straniero, dunque elemento ancor più perturbatore del “semplice” fatto di essere un rivoluzionario15) di aver ucciso l’industriale ma senza una prova concreta, non ci sarebbe stata trattativa tra polizia e sequestratori e le forze dell’ordine hanno sparato subito anche di fronte a uomini che si stavano arrendendo e poi... il volto di Miguel, sfigurato dai proiettili «al punto da rendere impossibile l’identificazione attraverso i tratti somatici». Le autorità boliviane «hanno voluto impedire il nascere di un nuovo mito guerrigliero».

Per quanto possa essere crudo e atroce, è l’epilogo di chi aveva, senza troppi mezzi, dichiarato guerra, spinto dall’idealismo e dall’ardore romantico e rivoluzionario ad un nemico più grande, meglio organizzato e, sebbene rappresentante una “democrazia dalle ginocchia fragili”, sicuramente più strutturato della Cnpz. Nel documentario di Pichler, uno dei sopravvissuti agli arresti (tutti venticinquenni, cristiani e comunisti), chiamato in causa dal regista, dirà che Miguel era il più idealista e che dava a tutti una grande forza d’animo (sebbene negli ultimi tempi si sentisse molto isolato16) ma era anche molto impreparato.

«Lo eravamo tutti [molto impreparati]: era una cronaca di una morte annunciata».

Eppure Miguel, in una lettera-testamento ai genitori e alla famiglia, racconta il suo percorso, dalla partenza all’epilogo (senza essere troppo esplicito) ma che restituisce un animo in cerca di giustizia, libertà, equità e solidarietà. Di questo, penso, è bene occuparsi nell’analisi della vita di Nothdurfter e di quanto è accaduto nella vicenda del sequestro Lonsdale: andare alla ricerca, insieme a Miguel, di quanto l’occidente fosse malato allora e di quanto non sia cambiato oggi; di quanto il primo mondo sfrutti, di quanto sia impelagato in una riflessione di giustificazione e autoassoluzione senza la minima autocritica. Non assolvere Miguel per la sua guerra, ma stare dalla parte della sua anima e del suo spirito. Lo spirito di un uomo innamorato della vita a tal punto da voler ingaggiare una lotta senza quartiere contro le ingiustizie che rendono il povero ancor più schiacciato da un capitalismo selvaggio e da una borghesia sfrontata e superba. Talmente innamorato della vita da aver deciso che valesse la pena anche perderla, pur di continuare nella sua lotta.

Tra le strade della regione di Araca


Dalla lettera-testamento, scritta nell’agosto 1990 da Miguel ai suoi genitori:

«[…]

So bene che nessuna delle persone con cui convivo potrà mai darmi un diploma o un titolo di studio, ma secondo questa logica Gesù sarebbe diventato un fariseo e non sarebbe mai stato crocefisso. Io non sono Cristo, ma non intendo in alcun modo diventare un fariseo, ce ne sono fin troppi.

[…]

Dopo la guerra fredda arriva la calda “pax capitalista”, la pace che per noi si chiama “guerra di bassa intensità-alta probabilità”, la pace dei ricchi che hanno sempre di più e dei poveri che hanno sempre di meno. Per l’Est e per l’Ovest “libera economia di mercato” e “stato di diritto”; per il Sud, la guerra e lo scambio di merci, soverchiante e iniquo: il neoliberismo.

La principale questione è l’alternativa. Ieri, tutti coloro che premevano per una svolta dicevano chiaro e tondo: socialismo! Il cosiddetto socialismo reale è, però, in crisi profonda e ora troppi gioiscono per la presunta fine del comunismo. In questa logica, però, non dovrebbe più esistere un solo cristiano, perlomeno dai tempi dell’Inquisizione.

La teologia della liberazione, invece, esiste e non ha nulla a che fare con l’Inquisizione. I movimenti di liberazione dell’America Latina hanno così poco a che vedere con Stalin...

So di non essere stato un buon figlio per voi. Posso anche immaginare che il contenuto di questa lettera vi possa far preoccupare, ma dovete sapere che io faccio ciò che devo fare. Non pretendo che mi comprendiate, ma dovete capire che io agisco secondo coscienza, e che auguro solo il meglio a voi e a tutti gli altri. Avrei preferito tacere, ma credo di esservi debitore della verità. E la verità è che la passione e l’amore per il mondo mi spinge all’azione. Anche col rischio di commettere degli errori».

Stati uniti d'Europa: "matrioska" radicale, libdem e centrista

L'ossessione elettorale radicale per gli Stati Uniti d'Europa.

Nonostante le dichiarazioni incrociate, la lista "Stati Uniti d'Europa" pare ci sia. Senza Carlo Calenda (Azione) ma con Matteo Renzi (Italia Viva), Enzo Maraio (segretario del Partito socialista italiano), Volt (ma ancora non è detta l'ultima parola) e Andrea Marcucci (presidente di LibDem).
«Il nostro progetto è attrattivo», ha dichiarato Matteo Renzi nella giornata di ieri [4 aprile 2024], «Per ogni parlamentare europeo che prendiamo noi, un posto in meno per i candidati Meloni, Salvini, Conte, Schlein». Sul pronome noi c'è da intendersi: probabilmente il segretario di Italia Viva ignora (consapevolmente) il fatto che gli eventuali deputati eletti dalla lista siederanno senza una direzione unitaria e le direzioni in cui si muoverebbero sono già molteplici. Così come lo ignorerebbe anche Emma Bonino: «Ho lanciato la lista per gli Stati uniti d’Europa - ha dichiarato a «SkyTg24» il 3 aprile [2024] perché tenga insieme tutti i gruppi liberali europeisti, federalisti anche per condizionare le prossime scelte del parlamento e delle istituzioni europee». Bonino ha poi concluso: «Calenda ha scelto di tirarsi fuori per motivi che non so e che non mi interessano. Mi pare un grande errore».

A ciascuno il suo (seggio)
Al momento, dato Volt deciderà di partecipare o meno alla lista soltanto sabato 6 aprile, gli eventuali europarlamentari che dovessero risultare eletti a Bruxelles/Strasburgo andrebbero in gruppi diversi e spesso non alleati tra loro, come già accennato.
Il Partito socialista italiano
è fondatore e membro del Partito socialista europeo (Pse/S&D), ovvero il gruppo in cui è presente anche il Partito democratico, organizzazione ormai non amica di Matteo Renzi (e di altri esponenti della lista di scopo).
Italia Viva e la parte radicale di +Europa andrebbero a sedersi tra i banchi di Renew Europe ma Radicali Italiani ha il suo riferimento nell'Alde Party mentre Italia Viva al momento ha un solo eletto (Nicola Danti) vicepresidente del gruppo ma in quota Pde (Partito democratico europeo [1], l'organizzazione nata nel 2004 dalla cooperazione e azione congiunta di Francesco Rutelli e François Bayrou).
Della medesima collocazione di Danti-IV c'è la componente L'italia c'è (autodefinitasi "lista civica nazionale") ex Italia in comune: la corrente di Pizzarotti aveva anche esplicitato la propria collocazione alla scorsa tornata elettorale europea nel simbolo comune di +Europa.
L'organizzazione di Marcucci (LibDem), infine, ha anch'essa come riferimento l'Alde party, ma tra i fondatori del progetto liberal democratico c'è anche Sandro Gozi, rappresentante del Pde ed eletto in Francia nel 2019 nella lista Renaissance.

Partiti contenitori
Uno schieramento, quello della lista Stati uniti d'Europa, che assomiglia sempre di più alla disposizione in campo della Longobarda allenata da Oronzo Canà (integerrimo sostenitore, nonché inventore, del 5-5-5). Ma la «confusione generale», pure citata da Canà ai giocatori al momento dell'illustrazione del modulo, si potrebbe spiegare andando a chiarire un equivoco di fondo: Emma Bonino, Riccardo Magi, Federico Pizzarotti, Benedetto della Vedova e altri esponenti di primo piano di +Europa non fanno parte di un unico partito quanto, piuttosto, di un progetto comune che unisce realtà ex montiane (della Vedova venne eletto con Scelta Civica e ne fu uno dei maggiori sostenitori), ex grilline (Pizzarotti), liberali e radicali. Stati uniti d'Europa verrebbe ad essere il risultato di un accordo tra organizzazioni a loro volta contenitori di altre realtà più o meno rappresentate a livello nazionale e regionale.
Una matrioska liberal-radicale. Un brodo primordiale che fa invidia solo alla galassia della sinistra radicale, socialista e comunista.
Tanto più che i radicali, a partire dal 2015, sono letteralmente esplosi in varie correnti spesso non alleate tra loro (allora le due macro categorie di collocazione erano Radicali italiani e il Partito radicale nonviolento transnazionale e transpartito - Prntt). Il nome stesso della lista è un riferimento ideale oggetto di contese tra le due porzioni più rilevanti del mondo radicale.

«Fantasia e rigore»
Il 24 marzo 1987 il Partito Radicale aveva indetto un convegno a Roma intitolato "Stati uniti d'Europa subito" in cui Marco Pannella dichiarò che l'allora Comunità economica europea avrebbe dovuto avere «un pizzico di follia». Il «Corriere della Sera», nella breve dedicata all'assemblea radicale, aveva raccolto la dichiarazione del fondatore del Pr: «la gente vuole l'Europa subito e occorre rigore e intransigenza per ottenere l'obiettivo». Una volta entrati nel nuovo millennio, fu la volta della rivista «Quaderni radicali» (diretta da Giuseppe Geppi Rippa) a promuovere un numero monografico sul tema, eccezionalmente diffuso in edicola insieme al quotidiano «Il Riformista» (l'allora direttore era Antonio Polito, che si smarcò subito sostenendo che le opinioni espresse dalla rivista non erano le medesime del quotidiano). «Fantasia e rigore sono sinonimi», disse allora Pannella.
La campagna pro Stati uniti europei divampò nelle proposte radicali attraverso la presentazione elettorale di simboli il cui bordo rappresentava la bandiera dei paesi aderenti all'ex Cee. Nel 2009, quando un gruppo di radicali venne eletto nelle fila del Pd alle politiche, i dirigenti della lista "Bonino-Pannella" fecero campagna elettorale con la Stella di David sul bavero della giacca e alle spalle lo slogan "Stati uniti d'Europa subito!". Gli stessi sentimenti animarono il congresso del 2016 del Pnrtt (tenutosi al carcere di Rebibbia) e anche la querelle che nel 2018 e 2019 divampò a seguito dell'iniziativa degli allora vertici della Lista Pannella, del Prntt e del Psi per l'ipotesi di strutturazione del progetto di lista comune "Stati uniti d'Europa". In quella fase l'ex tesoriere di Radicali italiani Valerio Federico aveva dichiarato che il progetto della lista era stato evocato «allo scopo di danneggiare Radicali italiani e la lista +Europa». La storia di quella lista fu tormentata (corsi e ricorsi storici?) e qui non la rievocheremo interamente: Maurizio Turco depositò il simbolo al Viminale - come raccontava in quei giorni il docente Gabriele Maestri - ma la cosa non ebbe seguito. Anche se, stando alle rivelazioni del prof. Maestri, la questione non fu indolore:

«[...] quello tra Psi e Lista Marco Pannella non era un semplice rapporto ma un vero e proprio accordo formalizzato in un atto costitutivo di una vera associazione, denominata Stati Uniti d'Europa, volta a "presentare un proprio simbolo e liste di candidati in ogni tipo di elezioni a partire dalle prime elezioni che si terranno dopo la sua costituzione": l'atto, molto simile nel contenuto a quello che costituì nel 2006 l'associazione La Rosa nel Pugno, è stato rogato da un notaio il 24 ottobre 2018 e lo hanno sottoscritto, oltre a due figure legate alla Lista Pannella, il segretario e il tesoriere del Psi in carica fino al congresso. "Il Partito socialista italiano - ha dichiarato il presidente della Lista Pannella, Maurizio Turco - ha stracciato l'accordo politico (notarile) con la Lista Marco Pannella per la presentazione della lista Stati Uniti d'Europa, accordo che aveva raccolto il 75% dei favori degli iscritti al Psi».

Il battage ideologico continua, la lista verrà presentata ma non dalla medesima parte radicale che ne aveva strutturato l'associazione. E chissà che il simbolo, pur provvisorio, non venga contestato dalla parte del Prntt.

Pubblicato su Atlante Editoriale

Europee, cambiano le regole: partiti nel caos


Foto di Christian Lue su Unsplash

Nasce la lista centrista “Stati Uniti d’Europa” ma si rischia già lo strappo con Volt e una parte di +Europa. Disputa sul simbolo tra la lista “Pace terra dignità” (lista Santoro) e i Verdi/Grüne del SudTirolo.

Mancano poco più di tre mesi alle elezioni europee: si terranno l’8 e il 9 giugno [2024] contemporaneamente in tutti i paesi dell’Unione. In Italia il Governo Meloni ha appena cambiato le regole per la presentazione delle liste: le organizzazioni politiche si stanno adeguando alla normativa, non sensa difficoltà.

Cambiano le regole ma in cosa consistono le modifiche?
Il Governo ha modificato la normativa che regola la partecipazione elettorale dei partiti e delle liste attraverso la conversione in legge del decreto 7/2024. Il Governo era partito in gennaio con la volontà di proporre alle Camere un testo già blindato nei fatti, a cui poi si sono aggiunti degli emendamenti in Aula. Tra le varie modifiche ce ne sono due tra le più rilevanti tra cui: la questione della raccolta firme per la presentazione di una lista e il voto – in via sperimentale – ai fuori sede. Riguardo la questione firme, in questo caso attorno all’esenzione della raccolta, potrà avvenire solo per la lista o il partito «che che abbia ottenuto almeno un seggio al Parlamento europeo – ed in una delle circoscrizioni italiane». Alle scorse europee [2019], mancando la specificazione delle circoscrizioni italiane, riuscirono a presentarsi senza raccogliere le firme anche le liste del Partito Pirata, della lista "La sinistra" (Rifondazione-SinistraEuropea e Sinistra Italiana) e del Popolo della famiglia di Massimo Adinolfi.

Proprio Rifondazione, sebbene fondatrice del Partito della Sinistra Europea, quest’ultimo rappresentato a Bruxelles/Strasburgo, ha scritto una lettera al Presidente della Repubblica riguardo, sostengono dal Prc, la palese incostituzionalità del decreto convertito in legge.

Sul voto ai fuori sede la normativa ora stabilisce che gli studenti fuori sede possono votare «nel luogo di domicilio, con esclusivo riferimento alle elezioni europee del 2024» ma è valida solo per «gli elettori che sono temporaneamente domiciliati» da «almeno tre mesi in un comune italiano situato in una regione diversa da quella di residenza». L’aporia della norma sta nel fatto che si voterà sia per il rinnovo del Parlamento europeo, sia per il rinnovo dei consigli in alcune regioni.
Dunque il fuori sede dovrà comunque recarsi là dov’è residente per poter votare anche alle regionali.

E i partiti? L’incontro-scontro al centro
Ventiquattro ore prima delle festività pasquali, è giunto in porto il progetto della lista denominata Stati Uniti d’Europa (SuE). L’area centrista liberal-democratica e radicale ha trovato un accordo attorno al nome della lista, nonché attorno ai maggiori sostenitori e rappresentanti di SuE cioè +Europa (dunque Radicali italiani e Italia in Comune), Italia Viva di Matteo Renzi, Libdem di Andrea Marcucci e il Psi di Enzo Maraio (che non è il nPsi, pur avendo oltre al garofano il medesimo font in comune).
Non ci sarebbero ancora le ufficialità di Volt (il partito politico paneuropeo) e della Nuova Dc siciliana ma il simbolo che è circolato nei giorni di Pasqua vede anche “la pulce” della prima organizzazione citata, che scioglierà la riserva solo il 6 aprile.

L’accordo, quindi, c’è. Cioè: ci sarebbe, pur nell’alveo di una «lista di scopo». Come da migliore tradizione radicale. Ci sarebbe, dicevamo. Il condizionale è d’obbligo e nonostante Emma Bonino in un suo articolo pubblicato su «La Stampa» del 15 dicembre [2023] avesse lanciato – calcisticamente parlando – la palla in tribuna per poter dare il via al percorso di costituzione del progetto, la lista soffrirebbe già di dissidi interni.
Si potrebbe ridurre il tutto ad un equivoco di fondo: +Europa, sebbene abbia trainato la creazione della lista, non è un partito unitario quanto più una sorta di coordinamento liberal-democratico di varie componenti, tra cui quella capitanata da Benedetto della Vedova, quella di Radicali italiani e quella afferente ad Italia in Comune. Federico Pizzarotti fa parte di quest’ultima: da presidente di +Europa ha affidato a X (ex Twitter) la polemica interna, prima riguardo la candidatura di «Marco Zambuto (genero di Totò Cuffaro)» ma anche attorno al simbolo che «non era mai stato condiviso in nessun organo: io non lo avevo mai visto». Chissà che il vento di Calenda, unico escluso dal mal assortito rassemblement centrista, non riesca a soffiare dalle parti di Federico Pizzarotti e spaccare il “fronte” appena nato.

Sinistra: la “lista Santoro” copia i Verdi/Grüne altoatesini?
La lista promossa dal giornalista Michele Santoro, dal professore Raniero La Valle e dall’influencer (ex Fronte della gioventù comunista) Benedetta Sabene, “Pace, terra, dignità”, non dovrà confrontarsi soltanto con la raccolta delle firme, ma anche con la legge. I Verdi del SudTirolo si sono rivolti ad un legale che ha inviato una lettera di diffida a Michele Santoro e a Rifondazione comunista (promotrice della lista), come rivela il docente Gabriele Maestri sul suo blog. Santoro ha, ad ogni modo, ribadito le ragioni della lista affidandosi anch’egli ad un avvocato ed ora è, letteralmente, battaglia sui simboli.

La risacca dei partiti personali
Il dato che emerge fino ad ora è quello dello spazio politico occupato dal “centro” che, a quanto pare, si sta facendo sempre più asfittico. Non più di due lustri fa se la pubblica opinione avesse assistito ad una veemente querelle come quella in essere da mesi (per non dire anni) tra i leader dei vari partiti lib-dem, moderati e radicali ma nell’area politica della sinistra radicale, avrebbe derubricato i dibattiti alla voce “litigiosità” del vocabolario. Proverbiale quella della sinistra, se di mezzo ci sono anche i comunisti o socialisti, poi, non se ne parli neanche. Non prima di aver trattato il tutto con distacco e una punta di disprezzo. Ma ormai l’opinione pubblica è assuefatta ai partiti personali e alle loro dispute, nonché al loro orizzonte elettorale e di brevissimo periodo: la politica, pur lontanissima, è preda di dibattiti su X e a colpi di post. Di sostanza ce n’è poca e c’è da cercarla con la lanterna accesa nel buio.
Come Diogene di Sinope: lui cercava l’uomo, qui cerchiamo la politica.

 

Pubblicato su Atlante Editoriale 

È l'una di notte e tutto va MES


Le modifiche al Meccanismo europeo di stabilità sono state ratificate. 

Il Senato approva la risoluzione di maggioranza con 104 voti favorevoli. Stando alla stampa, però, le modifiche non sono state all’ordine del dibattito quanto piuttosto la querelle a distanza che si è innescata tra Meloni e Conte.

La prima rimprovera al secondo di aver ratificato le modifiche al meccanismo europeo di stabilità quando l’esecutivo guidato dall’attuale Presidente del Movimento 5 Stelle si era già dimesso. Il giorno dopo le dimissioni arrivò la firma che dava il placet di approvazione riguardo le modifiche del Mes; ovvero «quando era in carica per i soli affari correnti», ha tuonato la Presidente Meloni nel corso dell’intervento alla Camera dei Deputati. Al Senato, invece, ha mostrato il fax di Di Maio, allora componente del Governo. Un’accusa – parrebbe di capire – significativamente grave: un colpo di mano a porte chiuse.
Ma il voto in Parlamento ci fu due mesi prima e, anzi, nel corso della seduta della Camera del 2 dicembre 2019 l’allora presidente Conte diceva

«Il nuovo trattato non solo evita pericolosi automatismi ma introduce anche il common backstop, che garantisce risorse addizionali per gli interventi del Fondo di risoluzione unico previsto dal Meccanismo di risoluzione unico, rendendo più robusto il supporto in caso di crisi bancarie».
Praticamente la posizione sostenuta – sfumature a parte – dal Presidente di Forza Italia (nonché vice di Meloni) Antonio Tajani.

Chiarezza sul Mes
A metà tra il fax di Luigi di Maio e la polemica tra Camera e Senato del 12 e 13 dicembre, c’è sempre il mare dei fatti; o, comunque, delle posizioni e della concretezza materiale delle cose. Nell’epoca post ideologica (che in realtà ne ammette una sola, quella del mercato) in cui il dibattito politico non è ancorato ad altro, se non ad immanenze di cui sempre meno si conoscono contenuti e risvolti (come è successo e sta succedendo sul Piano nazionale di ripresa e resilienza), c’è il rischio che il discorso sul Mes (e sul Patto di stabilità) rischi di essere tutt’altro che concreto; come invece è. E un riavvolgimento del nastro è più che necessario.

Nel 2012 la sezione italiana dell’«International business times» parlava dell’inizio di una possibile «dittatura europea». Quello che viene definito semplicisticamente come fondo salva Stati, in realtà è una organizzazione intergovernativa: «regolata dal diritto pubblico internazionale, con sede in Lussemburgo [...] che emette strumenti di debito per finanziare prestiti e altre forme di assistenza finanziaria» oltre a concedere «prestiti nell'ambito di un programma di aggiustamento macroeconomico», «acquistare titoli di debito sui mercati finanziari primari e secondari», «fornire assistenza finanziaria sotto forma di linee di credito» e «finanziare la ricapitalizzazione di istituzioni finanziarie tramite prestiti ai governi dei suoi Stati membri». Il principio del curare la malattia con altra malattia: cercare di risolvere il debito facendo altro debito. Maurizio Turco, segretario del Partito radicale nonviolento transnazionale e transpartito ebbe a definire il Mes come «l’esempio più chiaro, accecante, della degenerazione dell’Unione Europea» [1].

Una degenerazione rappresentata dal fatto che il primo trattato con cui si ratificò il Mes sancì la nascita di un'organizzazione che si fa fatica a definire democratica. Secondo Alessandro Volpi di «Altreconomia» la riforma che l’Italia ha aspettato a ratificare con i passaggi alle Camere da parte della Presidente Meloni non sarebbe piccola: «riguarda la modifica del trattato originario che serve a far salire il valore delle banche». Quindi solo a vantaggio delle «quotazioni bancarie». Affermazioni che ricordano quelle che ebbe a dire l'ex Primo Ministro Massimo d'Alema durante il momento più cupo della crisi greca secondo cui la popolazione locale non avrebbe beneficiato degli aiuti europei, eccezion fatta per gli istituti bancari del paese: «di questi soldi i greci non sentiranno neanche l'odore: questo meccanismo non può durare a lungo».

La strategia di Meloni
Se perfino dalle parti del quotidiano francese «Le Monde» giorni fa ci si è accorti che la Presidente del Consiglio goda di enorme popolarità, pur procedendo esattamente al contrario di quanto aveva sostenuto in campagna elettorale, ci deve essere qualcosa che non va. Tanto nel Paese quanto nella maggioranza di Governo. Lo spirito dei referendum targati Fratelli d’Italia per «uscire dall’Euro» (così come della proposta di legge per l'Italexit) è stato sepolto da tempo, sostituito dalla politica di realtà e dalla necessità di non turbare la Commissione Europea. Oppure non c'è niente di strano e quel quid che “non va” è semplicemente il riflesso di un paese sempre più sfibrato che ha introiettato il dualismo tra l’azione propagandistica e l’ammissione della sottomissione politica in sede europea. E chissà che la «madre di tutte le riforme che si possono fare in Italia» non faccia leva proprio su questo progressivo lacerarsi per poter riuscire là dove altri non hanno potuto nemmeno avvicinarsi.

[1] Maurizio Turco, Stati Uniti d’Europa. Adesso!, «la nuova liberazione», giugno 2018, Roma, <https://www.partitoradicale.it/wp-content/uploads/2018/06/NuovaLiberazione-1.pdf>.

Salario minimo, cosa sta succedendo? - Atlante Editoriale

Arriva il niet della Camera dei Deputati sulla proposta riguardo al salario minimo presentata dalle opposizioni. Ora spetterà al Senato della Repubblica esaminare il testo della legge delega del Governo, approvata ieri alla Camera con 153 voti a favore. Le opposizioni parlamentari in Aula hanno contestato l’iniziativa dell’esecutivo e della proposta di legge delega di Rizzetto (Fdi) ed altri (tra cui l’ex eurodeputato Battilocchio) approvata in commissione il 28 novembre [2023]. Il Presidente della Camera, sospesa la seduta per una manciata di minuti a causa delle proteste rivolte al Governo dai deputati dei gruppi del Movimento 5 Stelle, Verdi-Sinistra italiana e Partito democratico, ha poi proseguito con i lavori decretando il risultato della votazione.

D’altra parte il compito di Conte, Schlein e Fratoianni sarebbe stato particolarmente arduo da portare avanti: la commissione lavoro aveva fatto sì che la proposta delle opposizioni fosse snaturata nei fatti; la strategia degli emendamenti prodotti da Pd, M5S e Verdi-Si non ha sortito l’effetto sperato – né avrebbe potuto riuscire in alcun modo, stante l'equilibrio parlamentare.

Lo strappo
Già nella giornata di martedì il Governo aveva annunciato che non avrebbe discusso la proposta delle opposizioni circa il salario minimo orario fissato a 9€ lordi. Cifra attorno alla quale le opposizioni discutevano da mesi: solo a seguito di un intenso labor limæ, i tre gruppi maggiori (M5S, Pd, Verdi-Si) sono riusciti ad accordarsi a riguardo. «Come soglia minima, la proposta di legge sanciva i 9€ lordi l’ora», ha spiegato a «Radio Radicale» la deputata Valentina Barzotti (M5S) che ha aggiunto: «in sinergia con la contrattazione collettiva avrebbe potuto prevedere trattamenti di miglior favore».

Di parere opposto la Presidente del Consiglio dei Ministri Meloni che ha dichiarato la propria contrarietà alla proposta di legge delle opposizioni in un’intervista rilasciata all’emittente radiofonica «Rtl». Meloni ha ribadito la consonanza con il parere espresso dal Cnel e dal suo presidente (Renato Brunetta) attorno alla proposta dei 9€ contestando anche parte del mondo sindacale, riferendosi - con tutta evidenza - alle organizzazioni confederali: «vanno in piazza a rivendicare la bontà del salario minimo, ma quando vanno a firmare i contratti collettivi accettano contratti da poco da più di 5€ l'ora, come accaduto di recente con il contratto della sicurezza privata».

Cosa stabilisce la legge delega?
Il testo
consta di due deleghe al Governo e non prevede un riferimento chiaro ad una retribuzione (punto su cui si fondava la contrarietà delle opposizioni) limitandosi all’espressione: «assicurare ai lavoratori trattamenti retributivi giusti ed equi». In che modo? Contrastando «il lavoro sottopagato anche in relazione a specifici modelli organizzativi del lavoro e a specifiche categorie di lavoratori» e «il cosiddetto dumping salariale», ovvero la concorrenza sleale del “gioco al ribasso” nonché estendendo «i trattamenti economici complessivi minimi dei contratti collettivi nazionali di lavoro […] ai gruppi di lavoratori non coperti da contrattazione collettiva, applicando agli stessi il contratto collettivo nazionale di lavoro della categoria di lavoratori più affine».

La proposta di legge di iniziativa popolare «non meno di 10€»
Se nell’Aula si discuteva dei 9€ e, conseguentemente, si votava la delega, fuori dalle istituzioni il dibattito correva su un altro binario. Il 29 novembre, ovvero il giorno seguente l’approvazione della delega in commissione lavoro, Unione popolare e Rifondazione comunista depositavano in Senato una proposta di legge di iniziativa popolare supportata da 70mila firme che chiedeva l’istituzione di un salario minimo di 10€ lordi l’ora. Una misura che, stando alle parole di Maurizio Acerbo (Rifondazione comunista), rilasciate al «manifesto» in quei giorni, sarebbe stata una «misura coerente di lotta contro il lavoro povero e sottopagato che ci sembra più seria di quella avanzata dalle opposizioni parlamentari nel dare attuazione all’articolo 36 della Costituzione».

«Contratti collettivi? Una foglia di fico».
Nel corso delle audizioni in commissione lavoro, i rappresentanti delle associazioni di categoria hanno spesso fatto riferimento alla mancata applicazione dei contratti collettivi nazionali in determinati settori (tessile, ristorazione, ricettivo). Secondo Stefano d’Errico, segretario nazionale del sindacato Unicobas, raggiunto da «Atlante» la questione: «è la foglia di fico dietro la quale si nasconde l’attuale maggioranza». «L'applicazione del contratto collettivo non risolve la situazione sia perché ci sono dei “contratti pirata” firmati da organizzazioni sindacali di comodo (sindacati gialli), sia perché - purtroppo - anche le organizzazioni sindacali confederali (Cgil, Cisl, uil) hanno sottoscritto almeno 25 contratti nazionali in cui la paga oraria è inferiore a 9€», ha dichiarato D'Errico. «Siamo a favore del salario minimo - ha proseguito - perché ci sono 3 milioni di lavoratori che fanno la fame (spesso lavorando a volte più di otto ore al giorno), ma anche per l’introduzione della “scala mobile” che recuperi almeno l’inflazione dichiarata. E ci sembra ridicolo anche solo il dichiarare – come pure hanno fatto esponenti della maggioranza - che attraverso un provvedimento del genere si possano abbassare i salari alti».

«C’è una grande ipocrisia attorno al salario minimo, soprattutto da parte governativa: in tutti i paesi dell’UE è presente una legge a riguardo e la cifra oraria oscilla tra gli 11€ e i 12€ lordi. Un’ipocrisia che notiamo anche tra le fila delle organizzazioni sindacali le quali, spesso, sono state talmente compiacenti con la Confindustria e col padronato da aver sottoscritto “contratti di rapina”».

 

Articolo pubblicato su Atlante Editoriale: https://www.atlanteditoriale.com/cosa-sta-succedendo-riguardo-al-salario-minimo